Ansiolitici e Alzheimer: le benzodiazepine aumentano il rischio di demenza

E’ degli scorsi giorni la notizia di uno studio pubblicato dal BMJ (British Medical Journal) che ha evidenziato il rapporto fra l’assunzione prolungata di benzodiazepine (classe di ansiolitici alla quale appartengono fra gli altri Xanax, Lexotan, EN, Ansiolin e Tavor) e l’aumentato rischio di sviluppare la Demenza di Alzheimer nella terza età.
I ricercatori hanno scoperto che i soggetti che hanno assunto benzodiazepine per periodi prolungati (più di 3 mesi) hanno un rischio di sviluppare Demenza che cresce del 51% rispetto a chi non le ha assunte.

Il periodo di tempo che è considerato “prolungato” è di soli 3 mesi, ma quante persone assumono ansiolitici (per sedare l’ansia e per dormire) per anni se non decenni?
Non è raro incontrare persone che assumono abitualmente psicofarmaci perché soffrono di insonnia da anni e anni e, sopra una certa età, persone “affezionate” alla propria benzodiazepina, che assumono anche da 20-30 anni senza che il medico curante si opponga (magari perché non sa cos’altro fare per loro) e senza sospettare che si tratta di farmaci non certo privi di rischi – oppure sottovalutandoli e ritenendo che non potranno essere così gravi.
Un altro articolo pubblicato recentemente su JAMA (Journal of the American Medical Association) riporta i risultati di uno studio svolto su un campione di 303 assuntori cronici di benzodiazepine di età compresa fra 65 e 95 anni, mirato a educare il paziente anziano a difendersi dalla prescrizione inappropriata di benzodiazepine rendendolo consapevole dei rischi che l’utilizzo protratto di tali psicofarmaci comporta (es.: declino cognitivo, aumentato rischio di cadute, ostacolo alle condizioni psichiche necessarie per guidare l’automobile).

Secondo una nota dell’AIFA (vedi bibliografia):

“Nonostante siano di provata efficacia,  le benzodiazepine possono comportare dei rischi, soprattutto se il loro utilizzo si protrae per lunghi periodi. L’uso a lungo termine può portare alla dipendenza e a sintomi di astinenza in caso di sospensione. Le benzodiazepine possono mettere in pericolo la cognizione, la mobilità, e abilità di guida nelle persone anziane, così come aumentare il rischio di cadute. Un recente studio ha anche riscontrato un’associazione tra l’uso di benzodiazepine negli anziani e aumento del rischio di malattia di Alzheimer.”

Questo secondo studio sottolinea quindi la centralità e l’importanza dell’approccio educativo e responsabilizzante del paziente al fine di ottenere la condivisione consapevole della scelta di assumere o meno gli ansiolitici quando prescritti in eccesso, specialmente a fronte di prescrizioni derivanti non dal rapporto con uno specialista in psichiatria, ma dal semplice periodico rinnovo della prescrizione del medico generico, che in alcune fasce d’età è il maggiore prescrittore (90%) di benzodiazepine ai pazienti anziani negli USA.

Lo studio pubblicato sul BMJ evidenzia chiaramente un rischio molto grave e per nulla da sottovalutare, l’accelerazione del declino cognitivo, proprio perché, anche se si concentra su soggetti ultrasessantenni, il “genitore” del 60-70enne che assume cronicamente benzodiazepine è il 30-40-50enne che inizia ad usare ansiolitici per far fronte ad ansia e stress e arriva a non poterne più fare a meno o a percepire un tale senso di sicurezza nel momento in cui le assume da non volerne più fare a meno.

In questo senso è importante prevenire l’assunzione cronica di ansiolitici ricorrendo allo psicologo per affrontare e risolvere i problemi non solo per  evitare i tanti effetti collaterali che gli psicofarmaci provocano, ma per non rischiare la dipendenza che possono generare, come evidenziato dai dati pubblicati su JAMA, e per il rischio che le persone si abituino ad utilizzarli considerandoli dei “compagni di vita” che in tarda età aumentano la probabilità di sviluppare una demenza.
Come ricordato dall’AIFA:

Le linee guida raccomandano ora approcci psicoterapeutici e antidepressivi come trattamento iniziale per l’ansia. Per l’insonnia, le linee guida raccomandano interventi comportamentali come primo trattamento.”

E’ anche molto importante controllare che chi si occupa dei nostri anziani non somministri loro benzodiazepine e quindi tranquillanti allo scopo di sedarli e renderli più gestibili se non ce n’è la reale necessità, e che in tal caso non ecceda nel dosaggio, ma si attenga strettamente alle indicazioni del medico curante: lo stato mentale dell’anziano può peggiorare con l’assunzione di tranquillanti (aumenta la confusione, si obnubila la memoria, compaiono momenti di “assenza”) e non sempre si è portati a collegare un peggioramento di questo tipo con l’assunzione di tali farmaci, soprattutto se i parenti non ne sono messi a conoscenza. Una buona vigilanza sul trattamento che genitori e nonni ricevono passa anche attraverso il monitoraggio di questo aspetto.

Fonti:

“Benzodiazepine: aumentano il rischio di Alzheimer con assunzione prolungata”

“Benzodiazepine use and risk of Alzheimer’s disease: case-control study”, BMJ
http://www.bmj.com/content/349/bmj.g5205

"Reduction of inappropriate benzodiazepine prescriptions among older adults through direct patient education: the EMPOWER cluster randomized trial", JAMA Internal Medicine
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24733354

"Benzodiazepine use in the United States", JAMA Psychiatry
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/25517224

"JAMA Psychiatry: uso di benzodiazepine nella popolazione anziana negli USA", nota dell'Agenzia Italiana del Farmaco
http://www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/jama-psychiatry-uso-di-benzodiazepine-nella-popolazione-anziana-negli-usa

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2 commenti

  1. Assumo da tre anni benzodiazepine per dormire, dopo infiniti, inutili, disendiosi tentativi con la medicina alternativa (fitoterapia, prodotti di erboristeria, yoga, psicoterapia…) regolarmente prescritta da uno psichiatara.
    Soffro di insonnia da sempre (da che ricordo ho sempre avuto disturbi del sonno, già a 6 anni passavo intere notti insonni) e devo ammettere che grazie alle benzodiazepine la qualità della mia vita è migliorata.
    La dose è sempre la stessa da anni (0,5 mg prima di coricarmi), non ho dovuto aumentare e ci sono anche stati dei momenti di sospensione di lunghi mesi.
    Dormo bene, sono più serena, affronto la vita con molto meno stress, sono meno tesa (la tensione era fonte di violenti mal di testa invalidanti), sono più concentrata e lucida (e quindi più produttiva). La qualità della mia vita è nettamente migliorata.
    I benefici sono talmente evidenti che, francamente, sono disposta a rischiare sul lungo termine.

    1. Cara Ada,

      il fatto che con altri metodi nel suo caso non si sia arrivati a una soluzione non significa che la soluzione non esista, ma più probabilmente che qualcosa non ha funzionato nei tentativi effettuati o che non è stato individuato il nocciolo della questione e quindi ciò che causa l’insonnia.
      Per fare un esempio fra i vari tentativi che lei cita (e che non so quanto abbia seguito fino in fondo), per quanto riguarda la psicoterapia bisognerebbe sapere di che tipo di terapia si trattava, per quanto l’ha seguita e con che frequenza: alcune persone infatti effettuano qualche colloquio psicologico e, non risolvendo ovviamente nulla quando si tratta di problemi radicati e invalidanti, concludono di “aver fatto psicoterapia” e che questa non è servita a nulla, quando il motivo dell’insuccesso è un altro.
      Stessa cosa per quanto riguarda qualsiasi altro tentativo: per poter commentare bisognerebbe conoscere nel dettaglio in che modo si è svolto, altrimenti la conclusione della sua inutilità è priva di senso.
      In ultimo sottolineerei il fatto che i sintomi psicologici/psicosomatici hanno sempre un significato e che di solito senza comprendere quale sia non si viene a capo di nulla: per fare qualche esempio, se una persona non dorme perché rimugina su altri problemi con tutta probabilità non riuscirà ad avere un sonno sereno fino a quando non avrà risolto o ridimensionato la percezione di questi problemi e nessun prodotto (farmacologico o naturale) o esercizio di rilassamento sarà definitivamente risolutivo. Se una persona non dorme perché è depressa non risolverà il problema dell’insonnia fino a quando non curerà la depressione. Se una persona non dorme perché non attua le necessarie misure di igiene del sonno deve prima di tutto cambiare i propri comportamenti, perché potrebbe migliorare o risolvere perfino il problema semplicemente adottando le regole ritenute fondamentali in materia, che salvaguardano il sonno fisiologico e limitano o eliminano gli elementi di interferenza.

      La strada che lei ha scelto è una delle tante e le raccomando di farsi seguire da uno specialista in psichiatria per la gestione della cura, in modo tale da essere sottoposta a un monitoraggio e da tenere sotto controllo la comparsa di possibili effetti secondari avversi. Aggiungo per inciso che probabilmente uno psichiatra le prescriverebbe un altro tipo di farmaco, proprio per evitare che si instauri una dipendenza dall’ansiolitico e la necessità di aumentarne la dose (che lei sta contenendo tramite la periodica sospensione della cura).

      In generale penso che l’importante sia che il paziente sia seguito adeguatamente da un medico specialista (in questo caso psichiatra o neurologo) quando si sottopone ad una terapia medica e che sia informato dei rischi, oltre che dei benefici, della cura che concorda o che sceglie di effettuare (quando questa non è strettamente necessaria e insostituibile, ovviamente).

      Le faccio tanti auguri,
      d.ssa Flavia Massaro

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