Antidepressivi e marketing: la costruzione sociale dell’effetto attribuito agli psicofarmaci

Forse non tutti sanno che negli USA è legale la pubblicità dei farmaci etici (che richiedono prescrizione medica) rivolta direttamente al paziente (o meglio, al “consumatore”): come tutti i prodotti anche i farmaci infatti devono essere venduti e quindi collocati sul mercato curandone l’immagine percepita dal consumatore il posizionamento sul mercato: in una parola, il marketing.
Il marketing e quindi la pubblicizzazione e promozione di un prodotto è indispensabile per garantirne il successo, ma quando questo successo significa aumentare il numero di assuntori di un farmaco si pongono non pochi interrogativi e questioni etiche, perché “piazzare” un prosciutto o un’automobile è altro rispetto a “piazzare” un farmaco: tutti questi prodotti rispondono ad un’esigenza del consumatore (mangiare, spostarsi, curarsi), ma le implicazioni del successo commerciale di un farmaco sono molto più delicate e rilevanti dal punto di vista sociale e di politica sanitaria (il costo dei farmaci è in gran parte a carico della collettività), oltre che per gli effetti sul piano individuale, familiare e relazionale.
Per visionare direttamente e farsi un’idea di queste pubblicità:
 “Psychological manipulation in antidepressant advertising”

Ricordo che gli antidepressivi SSRI, SNRI e NARI (come anche altri) non sono prescritti solo per i disturbi dell’umore, ma anche per i disturbi d’ansia, e che la loro assunzione è in continua crescita perché la domanda di benessere è in aumento e perchè sono apparentemente una facile risposta ai disagi psicologici che sempre più vengono diagnosticati ed etichettati anche quando non oltrepassano la soglia del patologico.
E’ così che la tristezza diventa depressione, la tendenza ad emozionarsi o preoccuparsi diventa ansia generalizzata, la timidezza diventa fobia sociale, i pensieri ricorrenti diventano ossessioni, la reazione ad uno shock diventa disturbo post-traumatico da stress e l’inquietudine che precede il ciclo mestruale diventa disforia premestruale, tutti da “curare” antidepressivi.

Un articolo scientifico pubblicato sullo Yale Journal of Biology and Medicine analizza il ruolo del marketing nell’influenzare le credenze sull’efficacia degli antidepressivi di tutti i soggetti coinvolti, dalle agenzie che analizzano e approvano un farmaco, ai medici prescrittori fino ai pazienti che li assumono.
Gli autori premettono che il dibattito sulla reale efficacia degli antidepressivi è più vivo che mai perché le certezze appaiono davvero poche in questo campo e che le industrie farmaceutiche che dal 1997 possono pubblicizzare direttamente gli antidepressivi al pubblico sono state accusate di esagerare gli effetti positivi dei farmaci che vendono e di celare sotto una cortina fumogena gli effetti indesiderati, pur molto frequenti e anche di una certa entità (qualche esempio: aumento del peso, calo della libido, disturbi gastrointestinali, bruxismo e anche suicidio, come documentato dalle ricerche sull’utilizzo degli antidepressivi in adolescenza).

Analizzando la comunicazione che il marketing degli antidepressivi rivolge ai consumatori, gli Autori dell’articolo sottolineano la presenza di questi passaggi:

semplificazione astratta del rapporto disturbo mentale-farmaco

Prendendo ad esempio la pubblicità del Prozac, che insisteva sulla specificità del meccanismo d’azione come garanzia di efficacia, gli autori osservano che ” l’artificio retorico dell’utilizzo di termini neuroscientifici nella pubblicità del farmaco è attuato per comunicare che la maggiore specificità farmacologica porta ad una maggiore efficacia psicofarmacologica”.
L’utilizzo di un “esperto” funziona per vendere qualunque cosa, basti pensare  quante pubblicità vedono la presenza di “ricercatori” in scena come artificio retorico utile a instillare l’idea di scientificità e fondatezza del messaggio e quindi di validità del prodotto.
Mentre la pubblicità degli antidepressivi negli USA “punta” sulla specificità di azione, gli Autori sottolineano che gli studi scientifici condotti per valutare gli effetti di un farmaco non analizzano per nulla il loro meccanismo di azione, ma solo la diminuzione della sintomatologia, indipendentemente dal fatto che il miglioramento avvenga per non meglio precisati “effetti selettivi sul cervello” o piuttosto per una generale azione psicotropa assolutamente generica (sedazione, attivazione, alterazione della percezione della realtà) e che nulla ha a che fare con effetti specifici.
Studi sempre più numerosi dimostrano peraltro che gli antidepressivi SSRI e SNRI non sono più efficaci dei placebo, ma questa informazione è  tenuta nascosta al grande pubblico perché confligge con interessi economici di enorme rilievo.

accettazione di tale semplificazione da parte dei soggetti interessati

Secondo gli Autori il marketing dello psicofarmaco ipersemplifica, ammanta di scientificità e fa diventare verità ciò che è solo verosimile e e ripete il messaggi conditi da termini e immagini mutuate dalle Neuroscienze per costruire un significato condiviso circa la natura biologica della depressione e quindi circa la reale efficacia dell’antidepressivo, esattamente come avviene nel marketing di qualunque prodotto, che ne costruisce e vende un’immagine vincente per spingere le vendite.
In tal modo si crea appunto la convinzione condivisa (common sense) che la spiegazione della depressione risieda in quei semplificatissimi concetti neurologici e viene da sé che il rimedio percepito come efficace sia quello farmacologico, col risultato di incrementare le vendite di antidepressivi che il paziente stesso richiede dopo che è stato convinto di questi concetti.

crescente importanza dell’effetto placebo nel dibattito

Poiché sempre più ricerche hanno dimostrato che antidepressivi e placebo (sostanze chimicamente inerti) quasi si equivalgono, l’ultima tendenza dei responsabili del marketing degli psicofarmaci negli USA è quella di sostenere che la pubblicità diretta al consumatore ha ulteriore efficacia proprio perché potenzia l’effetto placebo, modificando le credenze del consumatore e garantendo una migliore adesione (compliance) alla terapia.
L’effetto placebo è incrementato infatti dalle credenze del consumatore circa la veridicità del messaggio pubblicitario (se penso che qualcosa mi farà bene è molto probabile che sarà così, soprattutto se sto male e ho quindi grandi speranze di stare meglio il prima possibile) e negli ultimi anni secondo gli Autori sembra in aumento, condizione che erode ulteriormente la quota di “reale efficacia” del farmaco: se infatti si arriva al 90-95% di sovrapposizione degli effetti farmaco-placebo e si ritiene che quel 5-10% di “effetto reale” del farmaco dipenda a sua volta dalle convinzioni del paziente circa la sua efficacia, ci si può anche chiedere che senso abbia assumere un farmaco quando lo stesso effetto si può ottenere utilizzando le risorse psicologiche del paziente, responsabili del miglioramento dovuto all’effetto placebo.
Le industrie farmaceutiche stanno cercando una soluzione al fatto che antidepressivi e placebo si equivalgono escludendo dalle ricerche sugli effetti degli psicofarmaci i soggetti che rispondono positivamente al placebo, effettuando un primo esperimento somministrando a tutti un placebo.
Questo modo di procedere fa venire meno  le caratteristiche di scientificità degli esperimenti che devono avvenire in doppio cieco (é lo sperimentatore, né il soggetto sa se assume il farmaco o il placebo) e la validità del campionamento (il campione deve essere rappresentativo della popolazione generale, mentre questo doppio passaggio esclude persone che nella vita reale potrebbero vedersi prescrivere antidepressivi): si tratta di un tentativo di scegliere il campione che meglio risponde a farmaco per poi pubblicizzarne gli effetti, ma la scientificità sarebbe garantita solo se tali effetti fossero chiaramente attribuiti ad un ristretto e selezionato gruppo di pazienti e non a soggetti estratti casualmente, come un procedimento scientifico richiede per dare risultati attendibili e generalizzabili alla popolazione generale.

[Leggi anche: “Depressione: farmaci o psicoterapia?”]

Fonte:  Antidepressants and Advertising: Psychopharmaceuticals in crisis [full text]

Abstract: “Mentre l’efficacia e la scienza degli psicofarmaci e divenuta sempre più incerta, il marketing di questi farmaci rivolto sia ai medici sia ai consumatori continua ad essere al centro di un’industria  da molti miliardi di dollari l’anno negli Stati Uniti. In quest’articolo esploriamo come tale marketing del farmaco dipinge relazioni scientifiche idealizzate tra psicofarmaci e depressione, come molteplici parti interessate, compresi gli scienziati , agenzie di regolamentazione e gruppi di difesa dei pazienti negoziano spiegazioni neurobiologiche della malattia mentale e come l’effetto placebo è diventato una questione cruciale in questi dibattiti, compreso il possibile ruolo della pubblicità del farmaco nell’influenzare direttamente l’effetto placebo. Noi sosteniamo che la risposta alla domanda sul se e come gli antidepressivi “funzionino” non può essere diretta e oggettiva, ma è piuttosto frutto di un più ampio contesto sociale che coinvolge il dibattito scientifico, la storia politica del settore farmaceutico, discorsi culturali che circondano il ruolo dei farmaci nella società  e la flessibilità interpretativa di esperienza personale.”

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Bibliografia sul tema
:

  • Devlin H. “Talking therapies are more effective than Prozac-type drugs, says scientist; Serotonin enhancers ‘offer only a placebo effect’” The Times (London) 2010 Jun 14:13.
  • Fournier JC, DeRubeis RJ, Hollon SD, Dimidjian S, Amsterdam JD, Shelton RC. et al. Antidepressant drug effects and depression severity: a patient-level meta-analysis. JAMA.2010;303(1):47–53. [PMC free article] [PubMed]
  • Turner EH, Matthews AM, Linardatos E, Tell RA, Rosenthal R. Selective publication of antidepressant trials and its influence on apparent efficacy. New Engl J Med. 2008;358(3):252–260. [PubMed]
  • Kirsch I. Antidepressants and the placebo response. Epidemiol Psychiatr Soc. 2009;18(4):318–322. [PubMed]
  • Seeing is believing: the effect of brain images on judgments of scientific reasoning.McCabe DP, Castel AD Cognition. 2008 Apr; 07(1):343-52.[PubMed] [Ref list]
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