Quando una persona si rivolge allo psicologo lo fa con una serie di richieste che le appaiono adeguate e congruenti rispetto al proprio disagio.
Ha infatti elaborato una propria teoria riguardo al malessere che prova o alle difficoltà che non gli consentono di andare avanti con la propria vita, che può essere bloccata sotto uno o più aspetti: tale teoria dipende dalla sua esperienza personale, dalle modalità con le quali è in grado di reagire ai problemi, dall’ambiente relazionale nel quale è cresciuto e vive, da ciò che altri le hanno detto sul suo conto e così via, ma risente anche degli aspetti affettivi che contraddistinguono quello specifico individuo e della visione che ha di Sè.
Questa teoria implica sia una spiegazione del problema, sia un’aspettativa sul ruolo dello psicologo: professionista con la bacchetta magica? Dispensatore di consigli? Elargitore di “esercizi” (sul modello medico/riabilitativo) che consentano di “fare” qualcosa, negando la natura psicologica del problema ed evitando di analizzarlo?
Queste fantasie sul ruolo dello psicologo sono centrali per comprendere con quale motivazione un soggetto chiede aiuto: cerca una guida? un salvatore? un maestro? Cosa ci dice tutto ciò sul suo conto?
Si tratta di un aspetto centrale perchè la posizione di possibile passività con la quale una persona si rivolge allo psicologo è sempre negativa: se ritiene di non capire nulla di Sè, ma che un professionista potrà fornirle magiche soluzioni, esercizi simil-riabilitativi o dritte risolutive, non potrà partecipare al proprio processo di cambiamento.
Potrà solo “subirlo” e goderne i risultati finchè dureranno, poichè non avrà modificato in maniera significativa quegli aspetti che generano il malessere in lui stesso o nel suo ambiente familiare.
Questo meccanismo è alla base delle ricadute che avvengono quando l’intervento psicologico/psicoterapeutico è troppo superficiale e non arriva a modificare quelle dimensioni che sono la fonte del disagio.
La passività del paziente alla ricerca di soluzioni magiche, di consigli ed esercizi che da soli non possono garantire una soluzione duratura del problema deve essere contrastata per renderlo attivo e responsabile della propria vita e della propria esperienza.
Per farlo è necessario sospendere il giudizio ed ascoltarlo quanto basta per comprendere quale sia davvero la sua richiesta, non inseguendo una soluzione che non può arrivare quando non è ancora chiaro cosa il paziente vuole davvero dallo psicologo.
Colludere con la richiesta di un’immediata soluzione che non può arrivare in maniera piena e durevole in un ambito complesso come quello della vita psichica – se non dopo aver esplorato le vere variabili in gioco – ricalca semplicemente e fallacemente il modello medico-meccanicistico che non può essere applicato nell’ambito della Psicologia.
Qui è il paziente a possedere la Verità su sé stesso e l’operatore lo può e lo deve aiutare a scoprirla, condividendo le proprie ipotesi e non rincorrendolo sul suo stesso terreno inquinato nel momento del disagio acuto da emozioni che devono essere gestite e analizzate e non prese alla lettera.
La domanda/richiesta del paziente non deve essere quindi “presa alla lettera”, ma lasciata decantare e contemporaneamente decodificata per comprenderne gli impliciti che si celano sotto il livello esplicito di una domanda di benessere.
Questo è il ruolo di uno psicologo che, consapevole della complessità della vita psichica conscia e inconscia, non compiace il cliente/paziente, ma svolge pienamente il ruolo che il proprio Sapere gli consente di esercitare.
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