“Dottore, quanto ci vorrà?” – la durata della psicoterapia
Quando una persona chiede aiuto allo psicologo psicoterapeuta spesso desidera sapere in anticipo quanto durerà il percorso, dal momento che questo significa riuscire a sapere quando ricomincerà a stare bene. Questa domanda nasce da un pensiero del tipo “tutto-o-nulla”, come se fosse possibile delimitare chiaramente un “prima” e un “dopo” nel processo di cambiamento e di costruzione di un equilibrio differente da quello che ha portato allo sviluppo della patologia.
Il lavoro psicoterapeutico in realtà non ha uno svolgimento lineare: tende progressivamente al miglioramento del quadro psicologico, ma può presentare momenti di stallo alternati a momenti di rapido avanzamento e anche momenti di temporanea regressione, dal momento che la mente costituisce un oggetto di lavoro complesso ed è allo stresso tempo strumento della propria auto-guarigione.
Ciò che accade nella vita del paziente nel corso del trattamento può avere una grande influenza, perchè cambiamenti nelle condizioni di vita possono agevolare oppure ostacolare il lavoro: l’effetto di un licenziamento sarà differente da quello di una promozione, così come un partner che si allontana esasperato produce effetti diversi da un partner che si riavvicina al paziente, sostenendolo apprezzandone la volontà di cambiamento.
Quali fattori influenzano la durata di un percorso psicoterapeutico?
Si tratta di fattori individuali e relazionali che generano ostacoli o, al contrario, facilitano il processo di cambiamento del paziente:
– tempo di attesa e cronicità: rimandare l’inizio della terapia prelude a percorsi più lunghi. Questo deriva dal fatto che curare una persona che ha alle spalle due mesi di malessere non è la stessa cosa che curarne una che sta male da due anni (o magari anche più) ed è da considerarsi cronicizzata;
– gravità del disturbo: una situazione grave è più impegnativa da trattare rispetto ad una di entità lieve o moderata;
– complessità del quadro sintomatologico: un paziente che presenta un solo disturbo o un solo sintomo è più semplicemente trattabile rispetto ad uno che presenta più sintomi o più diagnosi.
Una persona che presenta un Disturbo da Attacchi di Panico sarà probabilmente più semplice da aiutare rispetto ad una persona che presenta attacchi di panico entro un Disturbo di Personalità, poichè nel secondo caso l’ansia è secondaria e dipende da una diagnosi soggiacente d’altro tipo;
– significato del disturbo: un soggetto che soffre di attacchi di panico perchè questo gli consente di essere esonerato da una serie di obblighi e richieste da parte di chi gli vive accanto starà male, ma resisterà inconsapevolmente al trattamento perchè l'”utile secondario” (sapendo che ha questo problema i familiari non pretendono che faccia cose che lo mettono in difficoltà) è molto rilevante e non gli è facile rinunciarci. Decodificare il significato di un sintomo e restituirgli un senso è indispensabile per smantellarlo efficacemente e non rischiando che sia successivamente sostituito da altri sintomi con la medesima funzione.
La durata della cura dipende quindi da quale significato ha il malessere del paziente e dalla sua capacità di riconoscerlo e di affrontarlo in maniera diretta, senza utilizzare il proprio malessere per ottenere quello che altrimenti non potrebbe ottenere;
– atteggiamento dell’ambiente familiare: se il paziente è sostenuto dalla persone che gli vivono accanto la sua guarigione sarà agevolata, mentre se i familiari lo colpevolizzano o ridicolizzano incontrerà difficoltà aggiuntive perchè sarà meno motivato e fiducioso nelle possibilità di cambiamento.
Allo stesso modo la famiglia deve essere disposta a sua volta a cambiare quando il disturbo è mantenuto in vita dall'”utile secondario”, rimodulando le proprie richieste nei confronti del paziente. Ad esempio una donna che entra in depressione e non si occupa più di nulla, quando in precedenza era gravata dalla totalità dei compiti familiari, sarà agevolata nel cambiamento se la guarigione non significherà ricominciare ad occuparsi di tutto, ma coinciderà con una diversa suddivisione dei compiti e delle responsabilità in ambito familiare;
– presenza di una rete sociale: se il paziente può contare su una rete sociale di supporto e non si sente solo e isolato potrà contare su risorse aggiuntive e sulla consapevolezza della propria importanza per le altre persone, fattore altamente motivante che sostiene e velocizza il cambiamento. L’isolamento costituisce invece un fattore prognostico negativo, come evidenziato da tutta la ricerca scientifica in materia;
– life events: ciò che accade nella vita del paziente non è secondario e interagisce con la cura ostacolandola oppure agevolandone la progressione. Ogni terapia non avviene “nel vuoto”, ma con persone reali che nel frattempo vivono situazioni oggettivamente difficili o, al contrario, privilegiate rispetto a quelle di altre persone. In entrambi i casi il sopravvenire di eventi significativi (nascita di un figlio, perdita di una persona cara, trasloco ecc.) influenza il decorso del trattamento.
– orientamento psicoterapeutico: il tipo di psicoterapia scelta influenza in parte la sua durata, ma non la determina con certezza, dal momento che non è possibile conoscere in anticipo la reazione del paziente al trattamento. In linea teorica una “psicoterapia breve” dura di meno, ma il suo successo dipende da tutti i fattori sopra elencati e dal fatto che il singolo paziente risponda favorevolmente allo stimolo costituito da quel particolare tipo di terapia. Analogamente non è detto che psicoterapie che hanno la fama di essere più lunghe lo siano davvero: una persona che si sente molto male quando si rivolge allo psicologo psicoterapeuta, ma che in realtà non presenta una situazione oggettivamente grave, può risolvere il proprio problema e sentirsi meglio nel corso di un trattamento breve di qualunque orientamento. Allo stesso modo una terapia breve e fortemente strutturata può rappresentare un tentativo terapeutico fallimentare e concludersi senza che il paziente sia guarito, lasciandolo con la necessità di intraprendere un nuovo e diverso percorso.
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Ora che sono in terapia capisco che è assurdo pretendere di sapere prima quanto durerà, mentre prima avrei tanto voluto saperlo!
I progressi che si fanno durante la terapia, sia nel miglioramento dei sintomi che nel capire meglio sè stessi, arrivano un po’ alla volta e si apprezzano un po’ alla volta. Non è qualcosa del tipo: oggi sei malato, domani sei guarito, come se si avesse un raffreddore, ma è un processo di cambiamento che dà soddisfazione anche quando è ancora in atto.
Mentre inizi a stare meglio e a capire tante cose sul tuo conto la fretta di vedere la fine ti passa, perchè ti rendi conto che è proprio quello che ti serve e che vuoi ancora lavorare su di te.
Cara Annabel,
è proprio così: quando si lavora in seduta (sia che si tratti di psicoterapia, sia di consulenza psicologica) e si scopre sempre di più su sé stessi l’ansia della durata del percorso diminuisce o scompare, perché ci si rende conto che è un work in progress.
Non è la preparazione di un cambiamento che avverrà di colpo da un giorno all’altro, ma è parte del cambiamento che può iniziare già dalla prima seduta.
L’aumento della consapevolezza e la ristrutturazione delle convinzioni che il paziente aveva circa la propria condizione lo fa cambiare già dall’inizio e lo rende una persona diversa.
Un caro saluto,
dott.ssa Flavia Massaro
Non si può stabilire un limite di tempo perchè non si può sapere come andrà, è assurdo pensare che un terapeuta abbia la bacchetta magica e che ti faccia scomparire il disturbo senza nemmeno capire perchè stai male, e fare in modo che il miglioramento non sia solo temporaneo.
Vorrei raccontare la mia esperienza: mi aspettavo una terapia lunga e invece ho superato in qualche mese il mio problema. Ho pensato che valesse la pena di fare una terapia psicodinamica che arrivasse ad analizzare le cause del problema ed è stata la scelta giusta, anche se so che ci sono terapie brevi che in teoria dovrebbero farti superare i sintomi nel giro di poche sedute. Io però non mi fido perchè penso che un lavoro fatto in fretta può non durare. Ho letto di diverse persone che sono state meglio nel breve periodo, ma che poi hanno ricominciato ad avere altri problemi. Se anche sto meglio in poche sedute ma poi ricomincio a stare male tempo dopo, ho perso solo tempo e soldi nel fare una terapia breve che non mi ha risolto nulla in maniera definitiva, ma solo temporanea. Questo almeno è il mio pensiero.
Saluti a tutti
Alex
Ho una cara amica che da 6 anni segue sedute di terapia con una psicologa, una alla settimana. Certo dopoun diviezio travagliato ha fatto geandi passi ma tutti questi passi sono palesemente dipesi da fattori esterni alla psicoterapia…un nuovo compagno … Nuova casa… Nuovo percorso x una seconda laurea… La perizia di uno psichiatra che le ha messo in luce i suoi problemi…
Ho la sensazione che stia perdendo tempo ed energie in un percorso che non la sta portando a nulla mentre ho chiaramente visto un miglioramento alla lettura della relazione spichiatrica.
Che faccio? Sono molto preoccupata.
Cara Paola,
più delle “sensazioni” che ha lei da fuori conta quello che sente la sua amica e il suo punto di vista, che lei non mi sta riferendo.
Le ha parlato di quello che sta pensando?
I cambiamenti esterni che lei osserva e che riconosce come miglioramenti sono probabilmente frutto della psicoterapia, che ha reso possibile alla sua amica superare un divorzio travagliato, elaborare rabbia e delusione, recuperare una buona immagine di sè e così aprirsi alla vita e a nuove scelte su più fronti.
L’unica cosa che mi sembra palese dal suo racconto è che una persona in profonda crisi e con una diagnosi psichiatrica (che lei non ha esplicitato) che riesce a superare un brutto divorzio, cambiare casa, iniziare una nuova relazione di coppia e iscriversi ad un secondo corso di laurea ha tratto giovamenti enormi dal percorso di psicoterapia che sta effettuando.
Non le sembra?
Mi dice che anche la relazione dello psichiatra conferma il miglioramento sul piano clinico, quindi non capisco davvero da dove nasca la sua preoccupazione.
Se vuole aggiungere altri dettagli sono a sua disposizione.
Un caro saluto,
d.ssa Flavia Massaro
Seguo un percorso con lo psicoterapeuta da circa due anni. Ho smesso di avere fretta di finire e di darmi delle scadenze, ma allo stesso tempo mi chiedo (e le chiedo) come si fa a capire quando si è giunti al termine di questo percorso? Non smetto di chiedermi quali possano essere i “segnali”, così come di chiedermi se sto facendo questo percorso davvero nel modo giusto, considerando che ci sono dei periodi in cui mi sembra di aver fatto miglioramenti e altri, ben più lunghi, in cui mi sembra di ricadere negli stessi schemi di sempre.
Cara Sabrina,
è normale che in un percorso di cambiamento ci siano battute d’arresto e anche momenti nei quali si fanno dei passi indietro, perchè non siamo delle macchine da aggiustare, ma degli esseri estremamente complessi e influenzati dagli eventi e dal contesto nel quale viviamo.
Non so per quale motivo sia in terapia, ma se lo è per un disturbo specifico dovrebbe risultarle piuttosto semplice comprendere quando questo disturbo inizia ad attenuarsi o scompare.
Mi vuole dire che diagnosi ha ricevuto?
Buongiorno,
Ho 20 anni e sono in terapia da circa un anno e mezzo. Il mio psicoterapeuta/psichiatra non mi ha mai detto di cosa soffro, se non certe volte accenni a depressione, disturbo d’ansia e paranoide, e mai mi ha detto quanto questo potrà durare. Non riesco a capire se il percorso mi sia utile o meno, certe volte mi sembra di sì, ma ho passato gli ultimi tre mesi in una forte crisi psicologica che lui attribuisce all avanzare della psicoterapia. Non capisco come sia possibile, se forse dovrei cercare un altro psicoterapeuta o meno. Cosa consiglia?
Caro Nicola,
prima di tutto le consiglio di andare in psicoterapia da uno psicologo e non da uno psichiatra (a meno che quest’ultimo non abbia frequentato una scuola quadriennale di psicoterapia come fanno gli psicologi psicoterapeuti, cosa che pochissimi psichiatri fanno), riservando allo psichiatra il ruolo di consulente per la terapia farmacologica (che immagino assuma).
E’ sempre bene separare i due ambiti e che siano due diversi professionisti ad occuparsi della psicoterapia e dei farmaci.
In linea di massima durante i percorsi terapeutici possono verificarsi delle crisi come quella alla quale lei accenna, ma senza conoscere il suo caso, la diagnosi e il tipo di psicoterapia che sta effettuando (se si tratta di una psicoterapia specifica) non posso dirle altro.
Valuti il mio consiglio e chieda un parere di persona ad uno psicologo psicoterapeuta, possibilmente di orientamento psicodinamico/psicoanalitico.
Mi faccia sapere!
D.ssa Flavia Massaro
Salve, sono in terapia da uno psicologo da circa un mese. La scelta di andare in terapia è stata presa in seguito ad un episodio di estremo malessere: tachicardia, vertigini, malditesta, pressione alta. Successivamente tal episodio sono rimasti tantissimi sintomi: per settimane non uscivo di casa, extrasistole, tremori, paura per tutto, senso di confusione, nessuna voglia di mangiare. I medici dopo le visite, mi dissero che erano tutti disturbi associati all ansia. Così iniziai ad assumere 0,25 xanax. È ad associare la terapia farmacologia ad una psicologica. È importante sottolineare che gli episodi sgradevoli sono cominciati in seguito alla morte del mio animale, e lo psicologo lo ha associato anche alla scomparsa di mia madre avvenuta qualche anno fa. Da quando ho iniziato la terapia sto decisamente meglio…ho ripreso quasi del tutto le attività della mia vita. Tuttavia ancora rimane sempre accesa la fiamma della mia fobia numero uno: morire anche io da un momento all’altro. Continuo a domandare al dottore quando starò completamente bene. Prima risponde due o tre incontri, oggi invece dice manchi ancora un mese. Ed inoltre non mi ha mai detto che terapia segua con me. In realtà sono degli incontri in cui argomentiamo ciò che penso. Inoltre mi ha insegnato la tecnica del training autogeno. Volevo sapere se secondo lei è la strada giusta oppure no?
Cara Saretta,
direi che un mese o due sono veramente un tempo troppo breve per poter risolvere definitivamente (cioè a livello profondo, disinnescandone le cause) un Disturbo d’Ansia e due lutti come quelli che ha subito.
Probabilmente la morte del suo gatto o cane ha riattivato i sentimenti di perdita legati alla precedente perdita della mamma e il risultato è stata l’insorgenza di forte ansia e attacchi di panico.
Non conosco altri dettagli sulla sua situazione, ma per superare del tutto la perdita e l'”abbandono” subito dalla mamma è necessario un lavoro non solo di superficie, ma un intervento sulle cause del disagio.
Tutto questo non è realizzabile in qualche settimana.
Ha ogni diritto di chiedere allo psicologo che si occupa del suo caso se segue un orientamento preciso o meno e il tipo di percorso che state effettuando la mette al riparo da future possibili ricadute, che purtroppo spesso avvengono quando si lavora solo sui sintomi e non sulle cause dei problemi.
Mi faccia sapere, un caro saluto
D.ssa Flavia Massaro