Depressione, smentito il ruolo del DNA

Mentre in precedenti studi era stata sostenuta e apparentemente dimostrata l’ipotesi di una base genetica per la depressione, molto in voga anni fa, un articolo recentemente pubblicato sull’American Journal of Psychiatry ha esaminato attentamente i risultati delle ricerche e smentito che i geni abbiano un ruolo determinante nel provocare i disturbi depressivi.

L’articolo, pubblicato nel maggio 2019, riporta i risultati di un importante studio condotto al fine di ri-analizzare gli altri studi precedentemente pubblicati (cioè una meta-analisi) e stabilirne la validità. Gli Autori hanno dimostrato che i 18 singoli geni presi in considerazioni nelle ricerche precedenti, e indicati come responsabili o corresponsabili dello sviluppo di gravi forme depressive, in realtà non svolgono questo ruolo.
Gli ultimi risultati indicano che la correlazione fra tali geni e i disturbi depressivi presi in esame costituiva un “falso positivo”, cioè un risultato apparentemente valido in quanto osservabile, ma in realtà dovuto a cause differenti rispetto a quelle ipotizzate.

Perchè dunque la depressione è a volte ricorrente nelle famiglie, al punto da apparire come una malattia ereditaria?
La motivazione è molto semplice ed è stata lungamente studiata in ambito psicologico e psicoanalitico nel corso dei decenni, trovando continue conferme.
La traiettoria delle “depressione familiare” si sviluppa fondamentalmente lungo due linee, che possono essere contemporaneamente presenti e attive nel generare sintomi nel singolo caso:

1) APPRENDIMENTO – Quando un bambino è cresciuto da uno o più adulti affetti da depressione o caratterizzati da uno stile di pensiero depressivo (pessimismo, catastrofismo, svalutazione di sè e degli altri) apprende tale stile di pensiero e di rapporto con il mondo e lo fa proprio, divenendo in seguito un adulto depresso perchè non ha appreso altre modalità di rapporto con la realtà interna ed esterna;

2) ABBANDONO – Un bambino la cui madre o il cui padre siano depressi non riceve tutte le attenzioni, le risposte, i gesti d’affetto nè la stimolazione cognitiva ed emotiva necessari per crescere sano dal punto di vista mentale e si sentirà presumibilmente abbandonato emotivamente (se non anche trascurato materialmente), gettando così le basi per un profondo senso di autosvalutazione e solitudine interiore che prelude alla depressione, in quanto “malattia della perdita”.
Sappiamo dagli studi condotti negli anni Quaranta dallo psicoanalista René Spitz che i bambini cresciuti in orfanotrofio, in assenza di un rapporto continuativo con un adulto di riferimento che li stimoli, li rassicuri e li “contenga” psicologicamente, tendono a divenire apatici e perfino a morire entro i due anni di vita (37,2% del campione) a causa della depressione anaclitica (= da abbandono) che sviluppano e del contestuale abbassamento delle difese immunitarie.
Spitz ha osservato che questo accadeva nonostante dal punto di vista delle cure materiali e dell’igiene i piccoli fossero accuditi adeguatamente.
Il rapporto numerico bambini-infermiere era 7:1 (un’infermiera ogni 7 bambini), con il risultato che nessun bambino poteva essere seguito adeguatamente dal punto di vista emotivo e che l’infermiera di riferimento era sostanzialmente assente per il bambino, ad eccezione dei momenti dedicati ad alimentazione e cambio del pannolino.
Pur in condizioni molto meno gravi rispetto a quelle di questi bambini, i figli di adulti depressi soffrono per il malessere del genitore, per la sua assenza emotiva e per l’appiattimento affettivo che ne deriva, sviluppando in seguito depressione con maggiore probabilità rispetto ai figli di adulti non depressi.

A volte i soggetti imparentati che soffrono di depressione non sono genitore e figlio, ma ad esempio nonna e nipote o zio e nipote: questo può accadere perchè determinati sintomi, sentimenti e pensieri possono “propagarsi” non linearmente all’interno di una famiglia.
Se prendiamo il caso di una nonna depressa (I generazione) che abbia un nipote depresso (III generazione) possiamo ad esempio ipotizzare che il genitore di quel nipote (II generazione) abbia reagito alla depressione della propria madre cercando di “curarla” e di risollevarla, con un ribaltamento di ruoli fra genitore e figlio.
Un bambino o bambina che sia cresciuto/a perseguendo l’obiettivo di curare la proprio madre sarà difficilmente un genitore equilibrato, perchè non avrà ricevuto le necessarie cure da trasmettere una volta adulto/a al proprio figlio e/o si attenderà che il figlio lo/la (III generazione) risarcisca di tutto il dolore e la fatica incontrati nel prendersi cura della propria madre (I generazione), prendendosi a propria volta cura di lui/lei (II generazione).
Il figlio di questa persona sarà il nipote depresso di una nonna depressa, e svilupperà depressione perchè sarà abbandonato emotivamente dal proprio genitore e ridotto a colui che ne deve risarcire le fatiche e i dispiaceri.
Prendendo ad esempio la medesima famiglia, il nipote (III generazione) potrebbe avere uno zio depresso (II generazione) che ha reagito alla depressione della madre (I generazione) sviluppandola a propria volta, a differenza del genitore (padre o madre) del nipote, che è quindi suo fratello o sua sorella (II generazione).

3) TRAUMA – Un bambino può sviluppare depressione già nell’infanzia o più avanti nella vita quando subisce un evento che costituisce un trauma e in particolare, un abbandono traumatico. Questo può essere rappresentato da un lutto, dall’allontanamento da uno o entrambi i genitori per svariati motivi (trasferimento lavorativo, ospedalizzazione, incarceramento), ma anche dall’ingresso in ambienti extra-familiari (asilo nido, scuola materna, colonia estiva) se subìto dal bambino come un distacco imposto e gestito non adeguatamente dagli adulti, soprattutto in presenza di un bambino sensibile al rifiuto.
Il distacco può anche riguardare l’allontanamento o la morte di un parente molto presente nella vita del bambino, come un nonno, o la morte di un animale domestico al quale il bambino si sentiva legato.
Una persona che abbia subìto nell’infanzia e non superato un distacco che ha vissuto come traumatico sarà più propensa a vivere con modalità altrettanto traumatiche i successivi rifiuti, allontanamenti, lutti e distacchi, compresi i cambiamenti di vita che implicano il “lasciar andare” qualcosa (cambio di scuola, lavoro, casa, partner): questo renderà più probabile lo sviluppo di un disturbo depressivo in età adolescenziale o adulta.

In tutti questi casi i geni e il DNA non hanno alcun particolare ruolo e un eventuale loro effetto sarebbe da considerarsi “ridondante” e non necessario a spiegare le dinamiche osservate, perchè le variabili psicologiche in gioco giustificano già ampiamente la vulnerabilità alla depressione e il suo sviluppo.



Bibliografia:
– American Journal of Psychiatry: No Support for Historical Candidate Gene or Candidate Gene-by-Interaction Hypotheses for Major Depression Across Multiple Large Samples
– René Spitz: “Il primo anno di vita del Bambino”


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